IL VIAGGIO (MUSICALE) DI FRA GIOVANNI
Ricostruire le musiche, o anche solo i tipi di musica ascoltati da Fra Giovanni da Pian del Carpine, inviato dal papa nel 1245 alla corte del qan dei Mongoli a Karakorum, è evidentemente un’impresa quasi impossibile; per avere una credibilità scientifica una ricerca simile dovrebbe occupare per molto tempo una nutrita equipe di studiosi (storici, antropologi, etnomusicologi…).
Le domande che bisogna porsi sono molteplici: seppure conosciamo l’itinerario del viaggio di Fra Giovanni, quali sono le genti effettivamente incontrate, visto che si tratta in molti casi di popolazioni nomadi? e seppure abbiamo testimonianze musicali tramandate oralmente di molte di tali popolazioni, quanto antichi possono essere considerati tali reperti, e quanto si sono modificati nel corso dei secoli? e ancora, con quali contesti musicali poté entrare in contatto Fra Giovanni? (corti, piazze, mercati, luoghi di culto, luoghi di lavoro, vie di comunicazione…)
Del resto anche per i repertori duecenteschi europei di cui abbiamo testimonianza scritta, la prassi esecutiva rimane almeno in parte congetturale; a ciò si aggiunga che gli strumenti impiegati in questi adattamenti sono ovviamente diversi da quelli originari (violino, viola e violoncello sarebbero stati “inventati” alcuni secoli dopo).
Quindi il lavoro del compositore può solo appellarsi a quella “filologia immaginaria” evocata da Berio a proposito dei suoi Folk Songs. I brani scelti appartengono alle tradizioni delle etnie che oggi abitano le terre toccate da Fra Giovanni; si tratta presumibilmente di musiche antiche, ma è difficile dire quanto, anche se potrebbero comunque ricollegarsi a repertori ancora più arcaici; le fonti utilizzate sono registrazioni in genere non propriamente etnografiche, ovvero effettuate da musicisti professionisti, e quindi comunque passate attraverso un filtro artistico moderno, pur se legato alla tradizione più “autentica”; a tale filtro si aggiunge il mio intervento di compositore, che ha introdotto varianti personali e dettagli idiomatici, oltre all’ovvio lavoro di adattamento agli odierni strumenti occidentali.
Per la città di partenza del viaggio ho scelto un mottetto politestuale, di autore anonimo, proveniente dal Codice di Bamberg. Il mottetto era un tipo di composizionie molto sofisticata, coltivato soprattutto nell’ambiente universitario di Parigi; non è quindi forse del tutto corretto associarlo alla città di Lione, ciononostante ho pensato che potesse essere rappresentativo della polifonia francese di origine religiosa. La prima sezione consiste in una trascrizione letterale della partitura originaria (ovvero della sua trascrizione in notazione moderna); la seconda contiene degli abbellimenti in tutte e tre le parti, secondo un criterio probabilmente non sconosciuto alla prassi dell’epoca, così come doveva essere ammessa l’esecuzione strumentale di una delle parti vocali (anche se verosimilmente non di tutte e tre).
È attestata la presenza alla corte di Praga, nel Duecento, di alcuni Minnesänger, provenienti soprattutto dalla Germania meridionale; Neidhart von Reuenthal, autore del Lied Owê lieber, non è tra questi, essendo stato attivo soprattutto in Baviera, ma è ipotizzabile che le musiche viaggiassero anche indipendentemente dai loro autori, e comunque il brano mi è parso sufficientemente rappresentativo del repertorio trovadorico di lingua tedesca (o meglio: medio-alto-tedesca). Ho affidato il canto alla viola o al violoncello, e ho inventato un accompagnamento per il violino, senza alcuna pretesa filologica. Del resto chi frequenta la musica medievale sa quanto margine di scelta sia consentito nell’interpretazione della monodia profana.
Fin qui nel nostro viaggio sulle tracce di Fra Giovanni abbiamo potuto contare sulla tradizione scritta, ma andando verso oriente, nel nostro caso verso Kiev, tale supporto viene progressivamente a mancare. Esiste una notazione neumatica per la musica liturgica russa, ma quella precedente il XVII secolo non è stata ancora decifrata; sappiamo che si trattava di musica monodica, ma anche che l’esecuzione poteva essere polifonica, o quantomeno eterofonica (tutti seguivano lo stesso modello melodico, ma con varianti individuali). La tradizione degli stichi (“versetti”) risale almeno al XV secolo; il testo ne costituisce la parte essenziale ed è fissato per iscritto, mentre la musica è affidata alla tradizione orale. Ho utilizzato come fonte il lavoro dell’ensemble Sirine, guidato dal musicista e studioso Andrej Kotov, che si è basato sulla tradizione dei putniki, pellegrini mendicanti, che fungevano anche da lirniki, musicisti ambulanti; il repertorio si è conservato soprattutto nell’ambito delle comunità di vecchi credenti, rimasti fedeli al rito precedente le riforme introdotte da Pietro il Grande, e più propensi a mantenere modalità arcaiche. Rasplačetsja, rastoskuetsja (Piange e si lamenta) ha una realizzazione a voce sola femminile e bordone corale maschile, nel mio adattamento affidati rispettivamente a violino e violoncello; in Stich Svjatomu Fedoru Tironu (Versetto a San Teodoro di Tiro) ho adattato al trio d’archi le tre voci maschili, che si muovono sillabicamente secondo un’eterofonia tendente alla polifonia vera e propria.
Le popolazioni del Caucaso settentrionale hanno conservato tratti culturali arcaici sino a tempi recenti, resistendo tenacemente ai tentativi di assimilazione, seppure non hanno potuto mantenere o conquistare un’indipendenza politica. È possibile che nel percorso tra il Mare d’Azov e la regione del basso Volga Fra Giovanni abbia avuto contatti con le etnie locali, come i Cabardini (in Occidente chiamati anche Circassi); mi piace anche pensare che le melodie cabardine Elmirzo e Kafa, seppur registrate in epoca sovietica, conservino ancora tratti sufficientemente arcaici da poter risultare credibilmente “medievali”. La viola reinterpreta la realizzazione originaria della viella autoctona shikapshina.
Il viaggio di Fra Giovanni verso oriente tocca ora il vasto territorio dell’odierno Kazakhstan; ciò non vuole necessariamente dire che egli abbia incontrato proprio gli antenati delle genti che oggi abitano il paese, ma va anche detto che l’invenzione delle “nazionalità” in Asia Centrale è un fenomeno piuttosto recente e di natura prevalentemente politica. Certamente di lunga data è comunque il legame della musica di quelle culture con la letteratura epica di tradizione orale, e la sopravvivenza, specie tra le popolazioni nomadi, di tratti arcaici, precedenti l’islamizzazione. Il genere del küy è menzionato nelle fonti a partire dal XVIII secolo, ma ha verosimilmente degli antecedenti più antichi; si tratta di brani strumentali di carattere descrittivo o narrativo, noi diremmo quasi musica a programma. Ayrawiqtïn ašši küyi (Il küy amaro della canna) fu suonato, secondo la leggenda, dall’eroe Taylaq (XVIII secolo) su un flauto di canna per piangere la morte del figlio perito in una spedizione militare. La mia fonte è un’esecuzione alla viella qobiz anziché al flauto, come sarebbe usuale per questo brano; anche in questo caso lo strumento ad arco viene reinterpretato da un suo “cugino” occidentale, il violoncello.
Il prosieguo del viaggio lambisce la regione montuosa del Pamir, nell’odierno Tagikistan, abitata da genti di stirpe iranica che professano l’ismailismo, una particolare forma di islam, esoterica e “liberale”. L’isolamento geografico e la peculiarità culturale hanno contribuito a forgiare una musica sensibilmente diversa sia da quella dei nomadi delle steppe di lingua turca o mongola, sia da quella cosmopolita delle città come Bukhara o Khiva. La serie di tre melodie tradizionali (Navâzesh, Sefâyi, aria antica), tratta da una registrazione di un ensemble attivo sul territorio con modalità ancora sufficientemente vicine a quelle della tradizione, è stata riarrangiata per trio d’archi (nell’originale sono presenti cordofoni a pizzico oltreché ad arco, come pure strumenti a percussione).
La tradizione epica (baatarlag tuul) è parte essenziale del repertorio musicale mongolo. Ogni clan ha i suoi propri temi, e i lunghi poemi sono stati trasmessi oralmente per diversi secoli. I bardi si acompagnano con il liuto pizzicato topshuur o con la viella ikil o morin khuur, e sono versati anche nell’improvvisazione, sia musicale sia verbale. Le registrazioni di un khuurchi (bardo suonatore di viella) della Mongolia Centrale, D. Zhantsanchoi, sono le fonti di due delle mie tre rielaborazioni di canti mongoli, tutte tratte dal repertorio epico. In Khar Khökhöl Baatar (L’eroe dalla treccia nera) la linea del canto è affidata al violoncello, mentre l’accompagnamento eterofonico del morin khuur è passato alla viola; in Erïïn Saïn Erentsen Merghem (Il prode abile arciere) canto e viella sono affidati al violino; nel terzo brano, una diversa versione dell’Eroe dalla treccia nera (o, per essere più precisi, un estratto da una differente sezione del lungo poema), il violoncello interpreta il canto, in stile morin khuur, la viola assume l’accompagnamento del liuto pizzicato, mentre il violino integra e punteggia l’una o l’altra linea. È da notare che il passaggio del canto allo strumento non è del tutto arbitrario: una parte consistente del repertorio strumentale mongolo consiste in trascrizioni di brani vocali, in particolare dei cosiddetti “canti lunghi” (urtyn duu), caratterizzati da estesi melismi. L’attenzione da me dedicata al morin khuur è motivata dal rilievo dello strumento nella cultura mongola, testimone a sua volta della particolare affezione di tale cultura per il cavallo: la viella reca una testa equina scolpita nell’equivalente del riccio, corde e archetto sono di crine e le decorazioni della cassa armonica sono in tema.
Può risultare di qualche interesse l’argomento dei poemi citati: nella prima versione dell’Eroe dalla treccia nera si descrive la nascita del protagonista all’inizio del tempo e il suo viaggio dal principe Badalma il Prezioso per chederne in sposa la figlia; la seconda versione dello stesso poema si sofferma maggiormente sulla nascita mitica dell’eroe, sulla sua potenza invincibile, la sua esistenza al di fuori del tempo ordinario, la bellezza del suo cavallo e della sua sposa. Il prode abile arciere dopo una breve descrizione della lussuosa yurta dell’eroe, passa a narrare la sfortunata campagnia contro il Re Giada Nera, che lo sconfigge, gli promette in sposa la figlia e lo avvelena con un perfido inganno; il destriero dell’eroe, però, corre a cercare rinforzi, e con l’aiuto di questi lo salva prima che sia ucciso; l’eroe trionfa e torna a regnare. In entrambi i poemi viene citato l’Oceano di latte, luogo mitico dei Mongoli e dei Turchi siberiani (Tuvini, Khakassi, ecc.), origine del mondo frequentata dagli sciamani nei loro viaggi spirituali, forse una sorta di inconscio collettivo.
Vicini settentrionali dei Mongoli sono i Tuvini, buddisti lamaisti come quelli (in entrambe le culture sono però presenti vestigia dei precedenti culti sciamanici), ma di lingua turca. Il tratto più conosciuto della cultura musicale di Tuva, peraltro condiviso con i vicini meridionali, è la prassi del canto difonico, che consiste nell’emissione simultanea di un suono grave di bordone e dei suoi armonici superiori. Tale tecnica è genericamente chiamata khöömei, ma ne esistono diverse varianti, a seconda della zona di risonanza privilegiata, ad esempio nasale (sygyt), gutturale (kargyraa) ecc.; per i Tuvini i suoni prodotti sono imitazioni stilizzate di suoni della natura e assumono una forte valenza spirituale. Il Canto del carovaniere (Ching Söörtukchulerining Yry) è però un kyska (“canto breve”, sillabico, analogo al bogino duu mongolo), il cui tema è il lungo viaggio dei mercanti da Pechino a Tuva, e la cui versione originaria consta di centinaia di strofe (a dispetto della sua presunta “brevità”…). La mia rielaborazione si basa su un’esecuzione già a suo modo “arrangiata” per ensemble; gli strumenti del trio da me utilizzato si scambiano figurazioni derivate dal canto, dal liuto topshulur, dalla viella igil e appunto dal canto difonico.